Le
città parlano.
Certo,
detta così sembra una frase nonsense, in quanto la grammatica
e il buon senso ci spiegano che il verbo "parlare" mal
s'addice ad oggetti inanimati. Tuttavia le città parlano. O, se
vogliamo essere più precisi, le città raccontano.
Una
città è un insieme di abitanti che ha una propria tradizione, una
cultura, un sentire sociale, un insieme di persone che hanno adottato
norme, regole comportamenti, un insieme in movimento. Ma, ci insegna
la fisica, ogni movimento lascia una traccia. Così le città,
insiemi di gente che lasciano tracce del proprio movimento,
raccontano i movimenti delle persone che le costituirono.
La Cattedrale di Sant'Agata, fulcro delle vicende svolte e raccontate. |
Oggi
abbiamo voluto tendere un metaforico orecchio per catturare una delle
storie che la città di Catania racconta, in un modo un po' inusuale.
Ci riferiamo ad un insieme di lettere, leggibile sulle porte di molte
chiese perlopiù agatine, che perde il significato originale per
acquisire il valore della memoria storica cittadina. Oggi infatti
abbiamo ascoltato la storia dell'acronimo N.O.P.A.Q.U.I.E.
N.O.P.A.Q.V.I.E. sulla facciata della Cattedrale. G. B. Vaccarini (1736). |
Non
ci dilungheremo adesso su cosa indichi, né sui miracoli veri o presunti, ci
piace invece notare il valore che ha assunto l'acronimo nel tempo e
qual è il valore storico che cela dietro appena otto lettere.
Esso
appare replicato in rilievo, inciso, talora dipinto. Assume lo stesso
valore che nel Medioevo degli analfabeti avevano le pitture o le
storie invetriate: l'analfabeta non sapeva leggere la Bibbia, ma gli
bastava recarsi in chiesa per apprenderne i racconti più importanti. Allo
stesso modo questo acronimo concede di ricordare perennemente un
avvenimento accaduto quasi ottocento anni fa, senza bisogno di fonti
scritte: la tradizione orale viene infatti convalidata e perpetuata
con otto semplici lettere, poste nei punti più importanti della
società di un tempo.
Dietro
a quelle otto lettere c'è nascosto quindi un capitolo importante
della storia cittadina, un avvenimento che ha segnato per sempre lo
sviluppo dei secoli seguenti.
Correva
infatti l'anno 1231, le rovine di Centuripe erano ancora fumanti e
l'armata di Federico di Svevia avanzava incessantemente verso la
città etnea. Tuttavia, giunto alle porte della città, il re e
imperatore si ravvide e risparmiò i catanesi, concedendo loro la
grazia. Questo avvenimento è annoverato tra i miracoli di protezione
di Sant'Agata, patrona della città. Ma dietro quelle otto lettere
non c'è solo questo: cosa spinse Catania a ribellarsi al sovrano,
perché otto anni più tardi egli fece erigere il Castello Ursino e
nel contempo concedette privilegi impensabili nei confronti di una
città sottomessa e conquistata il cui destino era comunque di finire
distrutta?
Il
racconto che la città compie ha una origine lontana e inizia dal
mirabile portone ligneo del Settecento che si ammira sulla faccia
della Cattedrale. Anche le porte delle chiese infatti raccontano storie ben
specifiche e questo in particolare, realizzato probabilmente su
disegno di Giovan Battista Vaccarini e databile con esattezza al 1736
come recita la data sulla trave, sembra voglia fare un sunto di
quanto segue.
I tre attori della fondazione della Cattedrale: Ansgerio, Urbano e Ruggero. L'ultima formella indica una delle qualità della diocesi. |
In
alto sulla sinistra è lo scudo di Asgerio britannico primus in
fundatione episcopus anno 1088; segue lo scudo del pontefice di
allora, Urbano II; quindi quello degli Hauteville la cui didascalia
ricorda il Gran Conte Ruggero, fundatoris della medesima
Cattedrale; infine un enorme volatile che aera nubesque
transcreditur. I primi tre sono dunque attori fondamentali per la
nascita della nuova cattedra catanese: Ansgerio, un abate
benedettino bretone, Urbano II, il papa che concesse ai Normanni in
Sicilia il titolo di legati apostolici, Ruggero I d'Altavilla,
Gran Conte di Sicilia.
Siamo
nel 1061, la Sicilia è ancora divisa in numerosi emirati in cui,
ritirati sulle montagne, sopravvivono piccole comunità cristiane di
rito greco (i cosidetti bizantini ebbe modo di scrivere Paolo
Orsi). Ancora nel primo trentennio del X secolo era infatti
formalmente thema di Bisanzio e nel secolo seguente l'Impero
d'Oriente considerava l'Isola già islamizzata ancora proprietà
dell'imperatore. In quest'ottica è interpretata l'incursione del
1038 di Giorgio Maniace. Nemmeno trenta anni più tardi è il papa a
ritentare l'occasione, sfruttando una forza barbarica che gettò
scompiglio l'Europa del secolo: gli uomini del Nord, i Normanni.
Costoro erano composti da diversi popoli quali vichinghi, variaghi,
danesi, svedesi etc. Alcuni di essi si legarono ad influenti famiglie
longobarde: gli Hauteville erano legati agli Aleramici dal matrimonio
tra Ruggero I ed Adelaide (o Aloisia) del Vasto. Il papa avrebbe
allontanato gli ingombranti barbari e, se ci fosse riuscito,
approfittando del fallito tentativo orientale, avrebbe dimostrato la
supremazia del Patriarcato di Roma, da poco scisso dagli altri
quattro (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme)
proprio perché si riteneva al di sopra di questi. La Sicilia dunque
era un ottimo banco di prova (anche per la prima Crociata della Storia, che si sarebbe indetta da lì a poco) che, grazie ad una situazione
estremamente favorevole, fu un successo insperato. I Normanni infatti
conoscevano già le capacità dell'esercito islamico, in quanto
furono mercenari al soldo di Giorgio Maniace, inoltre fu proprio uno
degli emiri – Ibn-al Thumna di Siracusa, intenzionato a prendere il
controllo di tutta l'Isola – a invitarli sperando nel loro
appoggio. Appena dieci anni dopo lo sbarco a Messina conquistarono
Catania e da lì a poco l'antica diocesi – che mai cessò di
esistere nemmeno durante l'epopea islamica visti gli esempi di Leone
III (994) e di Umberto (1040) – conobbe un atto rivoluzionario: il
culto ufficiale sarebbe stato quello latino e non più quello greco,
come fu invece per secoli (sin da quelle lontanissime guerre
Greco-Gotiche del VI secolo).
Lo scudo di Ansgerio, primus in fundatione episcopus. |
La
nomina di Ansgerio ha conseguenze notevoli. Anzitutto egli fu il
primo di una lunga serie di vescovi non catanesi. Fu anche il primo
vescovo proveniente dall'ordine benedettino: con lui inizia un lungo
sodalizio tra diocesi e tale ordine. Ma le conseguenze rivoluzionarie
furono due in particolare: Ansgerio era fedele alla Chiesa di Roma e
Ruggero lo insignì del titolo di Signore della città.
Quindi
Catania, fino a quel momento libero comune (titolo concesso
nientemeno che da Giulio Cesare Ottaviano, in seguito noto come il
primo Imperatore Romano) si ritrovò declassata ad essere feudo,
convertita su imposizione al culto della Chiesa di Roma. La storia ci
illustra Ansgerio come un “liberatore”, un vescovo magnanimo e
buono e tante altre qualità e attributi che la città racconta
invece in maniera diametralmente opposti. A partire dalla leggenda
dei cavalli del vescovo, che annunciavano la morte di un
vescovo-archetipo catanese per mano di Re Artù, ancora vivo e
residente in un castello nascosto alle balze dell'Etna, chiaro
esempio dell'astio popolare nei confronti della sovranità imposta e
tiranna degli amministratori della diocesi catanese. Ma un esempio
chiaro e lucido è proprio la Cattedrale.
Portale d'ingresso laterale (1577). Alla sua sinistra la lapide di fondazione della Cattedrale (1094). |
I
grandi cantieri ecclesiastici vedevano quale prime opere da compiersi
l'altare maggiore e l'area presbiterale in quanto, male che andava,
comunque era già possibile effettuare la Messa. Dunque, presa per
vera l'inaugurazione della chiesa di Ansgerio nel 1094, dobbiamo
pensare che le absidi – unica parte superstite del tempio eretto in
età normanna, del resto – esprimano esattamente quali fossero le
intenzioni del suo costruttore. L'imponente e massiccia struttura si
presentava come un castello a tutti gli effetti, coronato da una
merlatura di tipo guelfa, stretto da torri oggi non più esistenti,
massiccio e nonostante la presenza di alte arcate a rilievo sulla
superficie delle absidi non riesce ad essere ingentilito come più
tardi saranno la Cattedrale di Monreale o quella di Cefalù, entrambe
per certi versi simili, ma ben più aggraziate nel loro apparato
decorativo. Il messaggio è chiaro: il primo vescovo-signore di
Catania si rinchiude in una fortezza, al riparo dalle tensioni che
inevitabilmente portò nella città. La tensione si acuisce a maggior
ragione quando viene imposta una nuova area che funge da centro
sociale e politico, la Platea Magna, la quale si trova ben
distante dai luoghi anticamente deputati a tal ruolo. Il mondo
religioso poi aveva un peso del tutto marginale in una città di
mercanti quale era Catania, come si evince dalla posizione della
prima sede della cattedra, la chiesa di Sant'Agata la Vetere, situata
a ridosso del lato interno di un bastione fortificato addossato alle
mura settentrionali cittadine, a un passo dalle antiche necropoli, in
un sito da cui dominare la città senza esserne coinvolta: quasi come
le acropoli di un tempo. Lo stravolgimento della vita sociale
cittadino, realizzando la nuova cattedrale, è immenso, portando la
diocesi a sud, a controllare il Porto, fonte di ricchezza della
città, e creando uno spazio civico fin lì inesistente, ma adesso
dominato dall'incombente castello-chiesa di Ansgerio. L'affronto
maggiore probabilmente si ebbe quando la chiesa si intitolò a Maria
Mater Gratiae, patrona della Chiesa di Roma.
Abside laterale e metà settentrionale del transetto della Cattedrale. Il materiale di costruzione usato è quasi certamente proveniente dalle grandiose Terme Achilleane. |
In un
secolo tuttavia il rapporto tra il vescovo e la sua città si dovette
addolcire o perlomeno smussare. Siamo nel 1194. Enrico VI di
Hoenstaufen è nominato nuovo Re di Sicilia in quanto marito
dell'ultima erede normanna dell'Isola, Costanza d'Altavilla, ma il
Regno non ne è lieto e lo ostacola. Catania è una delle città
colpite dallo svevo e viene incendiata (la stessa Cattedrale perse
nel rogo il suo originario soffitto ligneo), il vescovo Ruggero è
esiliato. La profonda ferita che Enrico ha inciso sulla memoria dei
Siciliani sarà la leva su cui faranno pressioni le rivolte popolari
successive. Alla morte di Costanza nel 1198 l'erede al trono è
l'infante Federico, pupillo di Gualtiero di Palearia che lo cresce a
Palermo. Al rapimento del fanciullo l'anno seguente sarà il suo
stesso tutore Gualtiero a trarlo in salvo. Il vuoto di potere e la
complicità di Innocenzio III che favorì uno spezzettamento dei
poteri affinché le due potenze di allora, Germania e Sicilia,
rimanessero disgiunte causarono l'acquisizione di poteri e notevoli
forme di autonomie da parte dei feudatari locali. Nel 1221, divenuto
adulto e intenzionato a riorganizzare la Sicilia, Federico – che
per rivendicare la successione germanica si firmerà sempre Secundus
– indice la Assise di Messina atta a riannettere alla corona quei
privilegi che nel ventennio precedente gli vennero sottratti.
I
signori locali, facendo come dicevamo leva sugli abusi del padre,
tentarono di muovere contro Federico pur di non vedere tolti i poteri
acquisiti. Il principale agitatore fu Martino Bellomo a Messina, ma
non mancò Catania di unirsi alle rivolte. Il promotore delle
contestazioni catanesi fu proprio quel Gualtiero di Palearia che lo
stesso Federico agevolò concedendogli poteri straordinari (tra cui
la conferma del Pallio, nonché l'autorizzazione ad usare paramenti
sacri che il solo Archimandrita di Messina poté usare per privilegi
speciali precedenti), che ebbe la tutela del giovane erede al trono,
ne curò l'istruzione e lo liberò dal sequestro. Gualtiero era
infatti Signore e Vescovo di Catania da 20 anni esatti e nel 1227 fu
costretto a ritirarsi dal vescovato: morì due anni più tardi.
Nel
1230 cadono Siracusa e Nicosia; Centuripe viene rasa al suolo e gli
abitanti superstiti vengono deportati. L'avanzata sveva procede alla
volta di Catania. Qui accade l'impensato e l'insperato: Federico si
arresta e risparmia la popolazione.
La
leggenda vuole che i cittadini chiesero come ultimo favore prima di
essere trucidati che il sovrano partecipasse alla loro ultima messa
in Cattedrale. Qui Federico, aprendo il suo libro di preghiere, vide
apparire davanti ai suoi occhi marchiato a fuoco le lettere di cui
abbiamo anticipato. Impietrito dal terrore, chiese aiuto a tradurre
l'acronimo. In quel mentre un umile frate benedettino – la chiesa
fu a lungo gestita da quest'ordine – il cui nome nessun annale ha
poi riportato, vi lesse:
Noli
Offendere Patriam Aghatæ
Quia Ultrix Iniuriarum Est
Il
sovrano rimase ancora più inorridito da tale minaccia e la paura lo
fece desistere.
Fin
qui la leggenda. Ma questa scricchiola di fronte alle certezze
storiche e ai dati fin qui raccolti. Una serie di considerazioni
sulla figura di Federico II ci può condurre a ritenere il grosso di
quanto tramandato poco credibile. Anzitutto una personalità laica
che accetta un compromesso come una messa per espugnare una città
meno difendibile di Centuripe appare alquanto bizzarra, per tacere
del rischio di imboscate che avrebbe corso stupidamente; appare
insolito anche che Federico avesse con sé un libriccino per
preghiere, specie sul campo di battaglia; infine un uomo di profonda
cultura e di mente assai aperta come era, non avrebbe mai avuto paura
di un fenomeno inspiegabile, per non parlare della necessità di un
interprete per l'evento stesso. Pertanto, nulla togliendo al fascino
del racconto, ci pare del tutto infondata tale leggenda.
Formella del portone del Duomo. |
Tuttavia
un altro racconto si tramanda in merito alla vicenda, un'altra
sfumatura che trova una singolare corrispondenza in un luogo e un
tempo insospettato. In quest'altro racconto i catanesi, intimoriti
dall'arrivo del sovrano, decidono di rifugiarsi in massa nell'unica
fortezza esistente: la Cattedrale, tuttavia, spinti dalla pietas che
li caratterizzava sin dai tempi dei Pii Fratres, dalla chiesa
uscirono arrendevoli i soli uomini, in sacrificio si immolarono per
salvare donne e bambini, sperando nella clemenza del sovrano.
Federico, colpito dalla proverbiale pietas catanese, decise di
risparmiare la popolazione, non senza tuttavia un compromesso che
avrebbe di fatto segnato la sua conquista: fece passare sotto le
forche caudine i cittadini immolati presso la Porta di Mezzo o
secondo altri presso la Porta della Decima. Di questo dettaglio
rimane una frase sulla seconda formella in basso da destra del portone di cui più sopra abbiamo
avuto modo di trattare. Qui, a commento di un libro aperto (il libro
di preghiere di Federico) su cui è riportata la frase latina di cui
sopra e di una corona imperiale e di uno scettro capovolti (segno
della caduta del potere dell'imperatore), vi è riportata la frase
Impietas Pietate Refellitur
Otto
anni dopo detti eventi iniziò il cantiere del Castello Ursino,
secondo la leggenda eretto come monito alla città. In realtà alla
sua costruzione partecipò la cittadinanza stessa, autotassatasi per
il suo completamento, in cui parteciparono le principali etnie
religiose civiche: testimoni sono i candelabri ebraici (Menorah) e le
croci greche inscritte nel cerchio di chiara origine ortodossa,
realizzati a mosaico sulla malta che legava le pietre delle facce
esterne dell'edificio. Lungo tutte le pareti inoltre sono visibili
linee continue orizzontali che segnano i giorni di pagamento. I
catanesi dunque non vedevano una minaccia nel grande cantiere che
essi stessi stavano contribuendo a realizzare, anzi: fino al 1483 il
Castello era un tutt'uno con la città e solo in quell'anno venne
iniziata la demolizione dei caseggiati della Judeca di jusu che lo
circondavano per la realizzazione della vasta piazza d'armi che per
oltre duecento anni lo circondava.
Una
nicchia Gotica in cui è alveolata l'aquila con la lepre tra gli
artigli rappresenterebbe il vero monito alla città: il sovrano tiene
in pugno gli attoniti catanesi. Tuttavia l'araldica e la simbologia
medioevale ci raccontano diversamente: è il trionfo della potenza
sull'inerzia, della prosperità sulla solitudine. In pratica è il
simbolo imperiale che trasmette un senso di presenza attiva e non
distratta o lontana. Teniamo conto anche del fatto che dal basso la
lepre non appare visibile, pertanto essa non doveva essere di chiara
comprensione per il popolino.
La nicchia in cui è alloggiato il gruppo scultoreo. La lepre talora è erroneamente indicata come agnello. |
Accade
però che un altro insieme di figure alveolate in una nicchia (un
lavoro artigianale forse posteriore al 1373) sembra voglia fare il
verso a quanto precedentemente descritto: una figura femminile,
ieratica e coronata, in piedi con gli attributi di Sant'Agata si
trova a calpestare una figura
antropomorfa
(un demone?) ai suoi piedi. Stessa posa, ma con un dinamismo tutto
barocco, è la statua di Sant'Agata di piazza dei Martiri, nell'atto
di uccidere la serpe della peste del 1743. La peste viene
rappresentata simbolicamente come un serpente, un mostro alato o
talora come figura antropomorfa: non ci sentiamo dunque di escludere
che questa icona possa essere stata eretta a memoria del cessato pericolo
dopo la terribile Peste Nera del 1347. Tuttavia la suggestione che le
due icone, curiosamente situate esattamente una di fronte all'altra
in perenne sfida, siano le due parti della leggenda (Federico che
sottomette i catanesi e Sant'Agata che sottomette l'Imperatore) è
alta e aumenta se consideriamo che l'edicola della Santa venne eretta
proprio in prossimità di quella Porta di Mezzo, accanto cui vi era
la chiesa di Santa Maria delle Grazie, la cui effige in un affresco
del Trecento decorava l'interno della porta, accanto a Sant'Agata
avvocata dei Catanesi, sotto il cui arco passarono in segno di
umiliazione i cittadini... L'evento venne tenuto a perenne memoria
anche dai matrimoni (non molto tempo fa ancora si usava portare il
bouchet nella cappella delle Grazie) e durante la Festa di Sant'Agata
il simulacro si fermava davanti alla cappella, nel sito dov'era
eretta la Porta, prima che crollasse, quale segno che l'evento
storico faceva parte del quotidiano cittadino, una sorta di ricordo
ancestrale da perpetuarsi nella vita di tutti i giorni.
L'icona di vico degli Angeli. |
Tornando
al Castello Ursino, ci rendiamo adesso conto che il suo ruolo –
sebbene tradizioni e leggende lo rivestano di altri significati –
dovette essere un altro, forse più sottile, che quello di monito e
di controllo. Federico, sappiamo per certo, era un uomo avvezzo a
usare certe simbologie medioevali, talora rese lampanti, per
dichiarare la sua precisa posizione. Ecco che il Castello sorge a
guardia del golfo, a una cinquantina di metri dal mare, a fare da
contraltare alla chiesa-fortezza latina. Esso, più vasto della
seconda, si presenta ben più capiente e più facilmente difendibile
e difatti sarà anche usato in alcune occasioni quale rifugio per i
cittadini assediati. Propone così una alternativa al rifugio della
chiesa. Assieme al Castello, nel medesimo anno, come se si firmasse
una sorta di sodalizio, Federico concede alla città un privilegio
lontano un secolo e mezzo: la riscatta dal feudalesimo elevandola a
città demaniale. Catania è libera.
Federico
concede anche alla città di avere un suo simbolo civico che
sostituisca l'immagine di San Giorgio imposto dai sovrani Normanni.
Nasce quindi nel 1239 il lungo legame tra Catania e il suo Elefante,
che prende il nome da Eliodoro, antivescovo del VIII secolo il cui
bizzarro carattere è anche un perfetto spaccato della figura
anarchica e rivoluzionaria che ispirò forse il sovrano Svevo.
Il Liotru, simbolo di Catania, è anche il simbolo del suo riscatto da città feudale sin dal 1239. |
Ma
questa è un'altra storia che, la libera città di Catania, demaniale
a partire da quegli eventi, qui e là continua a raccontare.
A
modo suo.
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