La storia benedettina catanese ha radici davvero lontane.
Estendendo all'areale etneo la ricerca dei cenobi che seguirono la regola, troveremmo delle tracce antiche già nella figura semi-leggendaria di San Placido, che si vuole inviato nel 541 da Benedetto in persona nella città di Messina a fondare quella che poi sarà la principale abbazia dello Stretto, i cui proseliti avrebbero portato alla fondazione di altre piccole realtà monasteriali sulle pendici etnee. La figura di Leone Il Taumaturgo, ricordato come monaco benedettino, potrebbe testimoniare la presenza dell'Ordine a Catania, dove fu vescovo, nel secolo VIII.
Tuttavia potremmo far partire la storia cassinese di Catania con certezza dalla figura di Ansgerius, vescovo bretone a cui Ruggero Gran Conte infeudò la città. Siamo nel 1088 e la diocesi, come la vita politica, catanese viene stravolta: dal culto greco e dalla dipendenza dalla chiesa di Costantinopoli si passa al culto latino e alla dipendenza dalla chiesa di Roma. Nasceva, insieme alla Diocesi, il convento benedettino di Sant'Agata, ospitato nella cittadella vescovile.
Questa era nelle forme ispirata alla prestigiosa Abbazia di Cluny, presentandosi come una fortezza quadrangolare il cui tempio era attraversato da un transetto absidato, accostato da un grande chiostro porticato. La cinta delle Terme Achilleane fungeva da muraglione e isolava la cittadella dal tessuto urbano.
Qualche tempo più tardi, nel 1137, veniva concessa la creazione di un monastero adiacente la chiesa bizantina di San Leone da Pannacchio presso il Monte San Leo, dove un anno prima si ritirò in romitaggio Giovanni di Amalfi, monaco della cerchia di Ansgerio.
Nel 1143 fu poi concessa a frate Geremia del convento di Sant'Agata la fondazione di un monastero nelle campagne di Paternò con l'obbligo di renderle produttive e il privilegio dello ius populandi. Dando in enfiteusi il terreno, il nuovo monastero fece sorgere la cittadina di Santa Maria di Licodia.
Agli inizi del XVI secolo il plesso etneo di San Nicolò de' Arenis soffriva la posizione scomoda per via di un crescente fenomeno di brigantaggio per via delle condizioni politiche sempre più instabili. A più riprese si fece richiesta di ospitalità entro le costruende mura civiche a Catania, ma si dovette attendere la pietosa fine del plesso di Colle Pennacchio - sepolto dalle lave del 1536-'37 - per ottenere un'area edificabile. Il senato civico concesse ai frati i due quartieri della Cipriana e del Parco, già Iodeka di susu o suprana, costituiti da casupole trecentesche ormai fatiscenti dopo l'espulsione ebraica. La prima pietra si pose nel 1558, ma si dovettero attendere ancora vent'anni per i primi trasferimenti. Questo ritardo giustifica la presenza di architetture rinascimentali nel plesso nicolosita, ancora in funzione per tutto il secolo. Nel 1608 venne completato il grandioso chiostro, detto "dei marmi" per via del materiale dominante, ingentilito da una monumentale fontana di sapore rinascimentale che campeggiava al centro della corte. Un imponente acquedotto venne realizzato a partire dal 1642 sotto l'Abate Caprara. Questo serviva il convento cassinese, ma nel 1649 fu concesso il suo utilizzo gratuito alla collettività catanese, a patto che il senato civico si curasse della manutenzione. I benedettini sfruttarono l'acquedotto anche per alimentare centinaia di mulini lungo il suo tragitto. Questi, concessi in affitto, garantivano una notevole rendita ai frati.
L'eruzione del 1669 sconvolse non poco le condizioni del convento. L'acquedotto fu colpito, il convento circondato ed esposto agli attacchi, giacché da questo lato si persero le mura protettive. Fu il sisma del 1693 a giustificare una più ampia ricostruzione. Le lave ormai fredde non costituivano più un impedimento, ma una sfida da affrontare e superare brillantemente: un corridoio - detto di Mezzogiorno - fu edificato per metà sulle lave e per metà su un primo piano, mentre le cucine settecentesche - realizzate stravolgendo i progetti iniziali - scaricavano direttamente sulla sciara porosa i detriti cinerei, che venivano così assorbiti. L'acquedotto fu risanato e alimentò i principali Horti nobilis della città, mentre una nuova chiesa venne iniziata, destinata ad essere la più vasta di Sicilia. A proposito di horti, per quasi un secolo la cattedra di Botanica dell'Università di Catania utilizzava il grandioso giardino dei benedettini, in mancanza d'altro, per gli studi sul campo quando essa era presieduta da uno dei frati-docenti. Almeno, fino al 1858, quando venne fondato l'Orto Botanico Universitario da Francesco Tornabene, anch'egli monaco benedettino.
Nel 2002 i vari complessi benedettini nel centro storico (la Badia di Sant'Agata, la cui magnifica chiesa è un "regalo" di Vaccarini alla città; il convento di San Placido con annesso balcone quattrocentesco di Casa Platamone; il convento di San Benedetto con il magnifico "ponte sulla storia" che unisce le due badie femminili; il grandioso monumento di San Nicolò l'Arena, considerato il più grande convento d'Europa dopo il Palacio Nacional di Mafra) sono riconosciuti Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO. Costituiscono una grossa fetta del patrimonio architettonico cittadino e in buona parte ne hanno condizionato lo sviluppo e l'estetica.
Per otto secoli i benedettini hanno plasmato, accompagnato, assecondato l'andamento storico, artistico, urbanistico, etimologico della città. Hanno aiutato nei momenti di difficoltà (un frate benedettino tradusse l'acronimo "NOPAQVIE" all'intimorito Federico II), hanno influenzato le scelte politiche e persino condizionato certe leggi (come il piano del Duca di Camastra, che casualmente faceva dell'area del vecchio complesso cinquecentesco quella a minor costo per agevolare l'architettura popolare), ma hanno anche compiuto abusi più o meno vistosi (forse l'Arco di San Benedetto è il più eclatante caso di abusivismo edilizio della Catania settecentesca) e sono entrati nel mito. Per otto secoli Catania e i Benedettini hanno percorso strade che si intrecciavano inesorabilmente, fino all'incameramento dei beni da parte del nascente Regno d'Italia.
Ma ancora oggi il solco tracciato da quei frati in così tanto tempo condiziona la vita e lo sviluppo della città, ancora oggi Catania sente vicini quei luoghi e quelle memorie di cui non potrebbe fare a meno. Un sodalizio capace di trascinare i suoi effetti ancora in pieno XXI secolo, grazie a questa incredibile e vastissima eredità, testimone di un mondo che a Catania ha fatto della Regola un lontano ricordo e ha dato al motto Hora et Labora tutt'altro significato...
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